Soffocare

C’era da aspettarselo: l’odore di benzina mal raffinata uscita dai tubi di scarico mi ricordava come fosse ieri la mia prima inalazione di aria andina all’uscire dall’aeroporto di Quito, anni prima. E questa volta a Caracas, quella che oramai definisco una prerogativa dell’aria bordo strada dei paesi della zona non mi aveva trovato impreparato. L’avevo accolta con un misto di approvazione e sfida, come nel riconoscere una sensazione smarrita nel tempo, comprendendo nello stesso istante di doverne sostenere da quel momento le vaporose minacce ad ogni angolo di strada. Ero tornato in Sudamerica. Dopo ore di oceano la vista della costa sapora di conquista del Nuevo Mundo, ci si sente un po' su una caravella dell'aria a gioire di quel prurito diffuso che la curiosità di vedere fa percepire. L'impatto comunque è duro. L’impressione è che la pericolosità leggendaria che aleggiava nei racconti d'avventura di chi mi spiegava Caracas prima della partenza abbia una straordinaria concretezza e un fedele riscontro già all'arrivare in aeroporto. Atterrare su una pista tra il mar dei Caraibi e una delle barriadas (favelas, ndr.) più aggressive della capitale da già l'idea di dove si è finiti. Nel tragitto dall'aeroporto al centro il senso di inquietudine aumenta. I quartieri poveri, le barriadas, sono luoghi che non hanno un corrispettivo in Ecuador o in altre città della Colombia che ho visto, hanno una gravità propria, una solidità diversa, danno un senso di oppressione più denso, più massiccio, fino a diventare fisico, una sensazione corporale. Quartieri più arroganti che a Medellín o a Guayaquil, che entrano fin dentro al centro, sovrastano da sopra le colline che circondano la città, scendono a cascata verso le zone interne, paiono saltare addosso. Ciò che contengono non è ben visibile ma non lasciano tutto all'immaginazione. Casette di laterizio a vista e scheletri di cemento (più tardi, entrandoci, avrò modo di verificare in prima persona come alcune siano fatte di cartone e spazzatura), tetti di lamiere che si aggrappano l'uno all'altro scalando le colline su cui si adagiano, panni stesi, figure umane che si muovono ma di cui non si percepiscono i gesti. Il resto del centro non allevia l'animo. Di fatto è una grande prigione, un arresto domiciliare volontario, autoindotto. I palazzi hanno grate alle finestre come fossero carceri di venti piani, i negozi hanno le sbarre, le porte sono difese, le guardie private davanti alle attività commerciali. Emana un senso di claustrofobia che ho subìto fin dall'inizio e che solo ora inizia a scemare nonostante finora le mie attività siano state all'insegna del “chiuso”. Auto, ufficio, porte chiuse a chiave, cancelli per entrare in ufficio, guardiani che ti aprono le grate, autista che ti porta fin davanti casa e autista che ti preleva giusto davanti casa. Un imponente e onnipotente sistema di chiuse che compartimenta la vita distratta di gente che non ci fa più caso. Chiavi, serrature, grate. Il concetto di casa ripercorre questo regime di chiavistelli. Innanzitutto, a riconferma, le grate alle finestre, i vicini sono principi di castelli difesi da muraglie, le zone ricche hanno ville invisibili protette da mura di cinta coronate da cavi ad alta tensione ed il portero a guardia del passo. Casa mia un po' meno, ma si difende bene. Un gigantesco circuito di paranoia autoalimentantesi condivisa da milioni di persone. E io, nato tra i colli Berici, vivo ora tra tralicci e fili spinati. Doveva esserci un equivoco. Ma non c’era. La padrona di casa è un'anziana italiana, magrissima e con un certo cipiglio nei modi, migrata negli anni 40 da una Roma che non esiste più verso una Caracas che non esiste più per fare fortuna con un marito artista e figli non caduti lontano dall'albero paterno. Vivo in una minuscola casetta di un solo piano con giardinetto per le boccate d'aria di cui necessito. Mi ha alloggiato in una dependance piena dei suoi libri di una vita in varie lingue europee, con una rumorosissima aria condizionata che mi inibisce per timore di svegliare i vicini, una doccia a singhiozzo e una graziosa finestra sul giardino. Si vedono i colibrì agitare le ali come vesponi su sottili fiori che non identifico. Alberi di mango pieni di scoiattoli che si librano sui rami facendo cadere frutta rosicchiata da quindici metri sopra la mia testa, sfiorandomi. La notte si sentono strani rumori che paiono allarmi di case, c’è chi insiste siano uccelli. Mi chiedo che uccello possa emettere tali versi. E poi certe sere a sentire le urla di quegli eccentrici cugini arruffati dei pappagalli che paiono grida umane. Strane lucertole, fiori d’altri mondi, gli attacchi delle zanzare. Presto mi diranno con noncuranza che con la stagione delle piogge, ormai in arrivo, si snidano sinuosi insetti dalle lunghe antenne, il cui corpo è adornato da strabilianti arabeschi color nero e oro e la cui puntura provoca una morte on immediata ma ineluttabile. L’incanto di fronte a una natura spregiudicata inizia a far spazio ad un guardingo senso di vulnerabilità. Ci si abitua a tutto ma all’inizio il pensiero dell’esistenza stessa di certi animali e il sentirsi circondato da quei rumori ancestrali sono una sfida per chi cerca di addormentarsi. Un’inquietudine via via narcotizzata dal sonnolento torpore che porta la mia mente in un viaggio di fantasia tra le onde del dormiveglia, a condividere quel millesimo di sensazioni inattese ed esotiche che con un pizzico di presunzione mi accomunano ai grandi esploratori del passato. Io sul mio letto, come Alexander von Humboldt, geografo lungo le rive dell’Orinoco, percepisco quel pizzico di sensazione infantile di scoperta mista ad un timore reverenziale per una natura che sovrasta, che delinea le mie debolezze e aspirazioni tra i suoni gutturali degli animali, ma soprattutto quegli impercettibili slittamenti della realtà, quando nei brevi secondi prima del sonno il mondo fa capolino nell’irreale. Quando gli alberi, gli uccelli, gli insetti, l’incessante fragore della battaglia della natura si accalcano indolenti nell’onirico mutando forma e aspetto. E ancora vi si può scorgere la mimetizzazione di qualcosa di estraneo. Come in quelle assordanti notti in Amazzonia, anni prima, dormendo tra le urla di animali di cui non conoscevo l’esistenza e nel silenzio di un cosmo di rara forza ed imperscrutabile capacità di sopraffazione. In mezzo al nulla e inghiottito dal tutto. Poi ci si sveglia. Sono di nuovo a Caracas. La mia delegazione è invitata al ricevimento della Rappresentanza della Commissione Europea in Venezuela al golf club di Vattelapesca. Nel salone la diplomazia europea è in fila a stringere mani con l'aria allegra ed il sorriso rassicurante di gente che ha perfettamente chiaro chi tu sia. Giri di presentazioni e chiacchiericcio da ricevimento. Finché non arriva il primo segretario dell'ambasciata statunitense, un omone gigante con grave accento gringo, che con fare disinvolto e sornione si tuffa nello stagno d’acqua diafana della nostra conversazione presentandosi come membro dell'Ambasciata dell'Impero, con chiara allusione a Chávez e ai suoi lamenti populisti. Dirlo in modo così sfacciatamente piccante a sconosciuti come noi la dice lunga sul clima liberale dell'ambiente. In effetti qui la propaganda populista si legge e respira ovunque, nelle pubblicità pre-film al cinema, sulle scritte lungo le strade, pennellate di colori allegri con vignette da cartone animato inneggianti al cittadino responsabile, all’Eldorado di una Caracas pulita, libera dal giogo americano, una città da carosello grata ad un ammirato ma stanco Simón Bolívar. Il ricevimento funziona per sorrisi, strette di mano, chiacchiere e biglietti da visita, tartine e vini, golf club e savoire faire. Più tardi mi sarei chiesto se io sapessi fare ma era uno dei miei primi giorni e qualche piccola incongruenza mi sarebbe stata scusata. Poi il discorso dell'ospite introdotto dalla nona sinfonia di Beethoven, inno dell'Unione, che sembra gridare sopra a Caracas un profondo senso di orgoglio. Da buon europeista mi lascio prendere e mi sento in parte a casa, più a mio agio. Agio che si dissolverà poco dopo, con una fuga da VIP a metà ricevimento per tornare tra le sbarre della realtà fuori dai confini dell'Unione Europea. Ma la boccata d'aria mi ha rinfrancato. Ottimo pure il salmone crudo che servivano.