La città duale

“So bene che il mio impero marcisce come un cadavere nella palude, il cui contagio appesta tanto i corvi che lo beccano quanto i bambù che crescono concimati dal suo liquame. Perché non mi parli di questo? Perché menti all’imperatore dei tartari, straniero?”

“Sì, l’impero è malato e, quel che è peggio, cerca di assuefarsi alle sue piaghe. Il fine delle mie esplorazioni è questo: scrutando le tracce di felicità che ancora s’intravvedono, ne misuro la penuria. Se vuoi sapere quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane.”

Dopo sei giorni di navigazione verso occidente si inizia ad intravedere la sagoma della leggendaria città di Miranda. Essa si compone di due metà. Ognuna di queste è una torre che specchia se stessa nelle acque del lago che la circonda, dando vita alla parte mancante. Non esiste l’una senza l’altra e nessuna è primigena all’altra, non c’è un dritto ed un rovescio ma solo una torre che, da qualsiasi parte la si guardi, raddoppia se stessa creando una metà che ne compensi l’imperfezione. Che tramuti la propria perfettibilità nella pienezza del tutto. Una delle due luccica di un benessere ineguagliato ed il cristallo di cui è composta frantuma i raggi di luce che l’attraversano in riverberi che invadono la pianura circostante. Al suo interno i commercianti lavorano ricchi di prodotti e di guadagni, i palazzi d’alabastro si sovrappongono in centinaia di piani fino ad arrivare al cielo, adornati di fontane di marmo che zampillano all’interno dei giardini in cui variopinti animali esotici si gonfiano nella consapevolezza del proprio fascino. I danzatori notturni creano lunghe ombre ai ritmi di musiche sensuali d’innanzi a fiaccole che emanano il profumo degli olii d’oriente di cui si alimentano. Tutto nella torre è proteso alla felicità dei suoi abitanti. E mentre una torre di Miranda consuma ogni giorno il rituale della richezza, il proprio riflesso propagato nelle acque del lago è avvolto da una nube di fuliggine. Gli intensi scrosci di pioggia che ripetutamente si abbattono su questà metà oscurano i raggi del sole e rabbuiano le case illuminate da candele. Nella torre si costruiscono edifici di lamiera arrugginita e di mattoni crepati dal tempo che si alzano verso l’alto fino a far traballare le pareti per mancanza di fondamenta. Le urla degli affamati coprono le urla dei moribondi e i cani randagi si rotolano nel fango dove giocano i bambini. L’andirivieni nei mercati è un rito di sopravvivenza a cui partecipano le madri di famiglia tra lo stridere di ruote dei carri degli appestati diretti ai lazzaretti. Nulla di ciò che succede in una delle due metà di Miranda si riflette veramente nell’altra, le due torri vivono intrinsecamente legate e dipendenti ma lontane, si voltano le spalle, riflettodo il proprio opposto. Come una giovane dama dalla pelle di latte che specchiandosi vede l’evidenza delle rughe che le solcano il viso, i bianchi capelli che ne gridano la caducità e l’imminenza della propria fine. Manifestazione dell’imperfezione della prima e di volontà di vendetta dell’altra.

“Eppure io so che il mio impero è fatto della materia dei cristalli, e aggrega le sue molecole secondo un disegno perfetto. In mezzo al ribollire degli elementi prende forma un diamante splendido e durissimo, un’immensa montagna sfaccettata e trasparente. Perché le tue impressioni di viaggio si fermano alle delusive apparenze e non colgono questo processo inarrestabile? Perché indugi in malinconie essenziali? Perché nascondi all’imperatore la grandezza del suo destino?”

“Mente al tuo cenno, sire, la città una e ultima innalza le sue mura senza macchia, io raccolgo le ceneri delle altre città possibili che scompaiono per farle posto e non potranno più essere ricostruite né ricordate. Solo se conoscerai il residuo d’infelicità che nessuna pietra preziosa arriverà a risarcire, potrai computare l’esatto numero di carati cui il diamante finale deve tendere, e non sballerai i calcoli del tuo progetto dall’inizio.”

Relativizzare Caracas

Caracas non è uno di quei posti per soddisfare le velleità di turisti curiosi. Sebbene il Venezuela sia denso di attrazioni naturalistiche, la capitale non è un luogo invitante, non rasserena, e sebbene le strade pullulino di un variopinto e vivace dinamismo, le cronache sulla diffusissima e spregiudicata criminalità di strada fanno spazio ad un guardingo senso di vulnerabilità. Con una media di cinquanta morti violente ogni fine settimana, la roulette dell’imprevedibile si è insinuata sottopelle agli ormai non curanti caraqueños. E’ una faccenda di posto sbagliato al momento sbagliato perché ti sparino mentre sei nel traffico per rubarti la macchina, o mentre cammini per rubarti la borsa. Qui per rubare si spara. A Caracas si possono rubare anche le case. Invadendole. E la vie legali di risoluzione evidenziano l’inefficacia dei mezzi e la mancanza di volontà politica di un governo impegnato a radicalizzare lo scontro di classe. E non è con poco stupore che ho accolto la risposta della mia collega Vanessa che, pur conscia della condizione di ostaggi dei cittadini di una città a tratti invivibile, alla domanda cosa non ti piace e cambieresti di Caracas un po’ pensosa mi risponde “il traffico”! Altra soffocante maledizione di qui, vero. Ma come mi sentivo fuori luogo nell’attendermi una risposta diversa. E proprio il traffico di Caracas ha radici politiche profonde e oggi giorno molto interessanti. E’ stata del resto la “fortuna” del Presidente Hugo Chávez quella di essere stato in carica durante l’ultima impennata del prezzo del petrolio. Il boom economico derivatone ha permesso di riversare le grandi somme dei proventi del greggio in programmi sociali per le classi povere, permettendo un consistente calo del numero di cittadini in condizioni di indigenza negli ultimi anni. Con relativa maggiore ricchezza e con un serbatoio pieno di benzina che non costa più di due euro (2 euro un pieno di benzina!), migliaia di nuove auto si sono riversate su una Caracas oggi costantemente collassata nel traffico. Il boom è stato spinto da un’ingente crescita della spesa pubblica negli ultimi anni ed amplificato dalla politica monetaria che, tra i vari grattacapi, tenta oggi di contenere un’inflazione del 20%. Inoltre dal 2005 il bolívar è valutato ad un tasso di cambio fisso con il dollaro ad un prezzo sovrastimato. Il risultato è una moneta sovraprezzo che favorisce l’import ma penalizza manifattura e agricoltura interne. Ed il controllo sui prezzi che il governo esercita su molti prodotti base per limitare l’inflazione disincentiva la produzione privata, provocando sensibili riduzioni di derrate alimentari che di risposta incoraggiano ulteriormente la pressione inflazionistica. Al supermercato spesso non si trova il latte e negli scorsi mesi mancavano lo zucchero, il mais, la farina. La produzione interna rallenta: non si investono più capitali in un clima di controllo dei cambi e dei prezzi, distorsioni economiche, disequilibri tra domanda e offerta, con minacciosi venti di nazionalizzazione dei settori strategici e, non da ultimo, d’innanzi all’evidente ostilità ideologica di Chávez verso il settore privato che sta minacciando l’imprenditoria e gli investimenti stranieri. Nonostante l’imponente carosello di giganteschi murales con cui il governo fa propaganda lungo le strade della città, la riduzione delle derrate e l’inflazione a due cifre stanno accrescendo il malcontento tra le classi più indigenti che oscillano tra il populismo di un Chávez protettore del popolo e la disillusione di fronte all’inefficacia del suo “Socialismo del XXI secolo”. Il proposito chavista ha visto il primo stop con il fallito referendum costituzionale del dicembre 2007 che voleva assicurare la rivoluzione del popolo su basi socialiste, anti-imperialiste e quasi totalitarie, concentrando tutto il potere su un esecutivo già centralizzato, sfilacciando il pluralismo e permettendo a Chávez infiniti mandati presidenziali. Ultimo affondo da stato di polizia, poi ritirato, è la legge di “intelligenza e contro-intelligenza” che avrebbe obbligato tutti i cittadini allo spionaggio ideologico pena la reclusione, minato il sistema giudiziario e sradicato qualsiasi garanzia nei processi. Ma l’affaticamento delle fazioni chaviste tra il popolo rivela disillusione e apatia di fronte ad un’espansione economica inefficace che, a dispetto di interi pomeriggi di logorrea socialista a reti unificate da parte di Chávez e nonostante il petrolio superi i 100 dollari al barile, non permette al venezuelano medio di comprare il latte. Quarant’anni fa invece il Venezuela era il Paese più ricco dell’America Latina. Molti infatti sono gli italiani, gli spagnoli, i portoghesi che, migrati dopo la guerra e fino a pochi decenni fa, hanno messo radici in un Paese all’epoca in forte crescita e con grandi prospettive. Il Signor Gandin viene dal Fiuli. E’ arrivato ormai sessant’anni fa da un Nordest che non esiste più in un Venezuela che non esiste più. Oggi è presidente del Fogolar Furlan, circolo di emigrati nostalgici che pranzano la domenica nella sede dell’associazione. Mangiano pasta italiana, bevono vino friulano e grappa degli Alpini. Il clima è festoso, è gente che si conosce da sempre e che da sempre vive a Caracas; le loro storie da ascoltare sono pezzi di romanzi d’avventura misti a diari di memorie di luoghi rimasti impressi nelle loro menti. La Signora Bevilacqua ricorda molto bene il suo Cadore, ricorda il nome dei monti e i luoghi delle sue vicende di ragazza. Nella mia testa invece, quei nomi normalmente così familiari nel loro essere lì, dietro l’angolo, ora da Caracas suonano come incongrui ma confortevoli richiami ad un senso di agio e di appartenenza. La Signora Daini, risoluta e nervina, non dà invece segni di cedimento nel raccontare come sia sopravvissuta alla guerra e come la vita le abbia insegnato la relatività delle cose. E’ una donna impaziente che, pur non uscendo quasi mai di casa, ha le giornate piene di faccende come sono state tutte le giornate della sua vita. Intenerisce fare certi incontri, confrontarsi con gente simile a me per provenienza culturale ma distante mondi nella modalità in cui questa è stata assimilata nel contesto in cui hanno vissuto. Nessuno ora tornerebbe più indietro. Nonostante la situazione disastrata del Paese, l’insicurezza che ne deriva e a dispetto del loro passaporto europeo, la Signora Bevilacqua mi gela con una considerazione semplice quanto definitiva: “non avrei più nulla da dire alla gente di là.” Dall’altra parte del mondo, lontano dalla borghesia italiana di Caracas, nei barrios di San Blas, di La Moran e di Barrio Aeropuerto, vivono le comunità su cui si focalizza il mio lavoro, un progetto umanitario della Commissione Europea e di Croce Rossa Italiana. Sono quelle zone che noi in Italia chiameremmo favelas e in cui nessuno si immaginerebbe di entrare. Io ho avuto questa fortuna, che ha sciolto velocemente l’iniziale senso di timore mutandolo in una frizzante voglia di conoscere. Anibal è visibilmente brillo sotto il sole delle prime ore del pomeriggio del sabato. Sputacchia incitandomi a sostenere la rivoluzione chavista che nasce dai giovani, la speranza per il futuro. Janeth esce dalla sua casa di mattoni e lamiere spostando una tenda decorata a fiori. E’ contenta. “Que Dios te bendiga” dice sempre. Qui la gente gioisce ancora per cose di cui noi non ci accorgiamo nemmeno più. Sembra impossibile che ci si possa aggrappare a così poco. Caracas è una città difficile. Ma a modo suo dà l’opportunità di relativizzare, di umanizzare, di appurare come gente muoia e rinasca ogni giorno in una delle città più pericolose del mondo. Come dice la Signora Daini, “l’uomo è le circostanze”.

Soffocare

C’era da aspettarselo: l’odore di benzina mal raffinata uscita dai tubi di scarico mi ricordava come fosse ieri la mia prima inalazione di aria andina all’uscire dall’aeroporto di Quito, anni prima. E questa volta a Caracas, quella che oramai definisco una prerogativa dell’aria bordo strada dei paesi della zona non mi aveva trovato impreparato. L’avevo accolta con un misto di approvazione e sfida, come nel riconoscere una sensazione smarrita nel tempo, comprendendo nello stesso istante di doverne sostenere da quel momento le vaporose minacce ad ogni angolo di strada. Ero tornato in Sudamerica. Dopo ore di oceano la vista della costa sapora di conquista del Nuevo Mundo, ci si sente un po' su una caravella dell'aria a gioire di quel prurito diffuso che la curiosità di vedere fa percepire. L'impatto comunque è duro. L’impressione è che la pericolosità leggendaria che aleggiava nei racconti d'avventura di chi mi spiegava Caracas prima della partenza abbia una straordinaria concretezza e un fedele riscontro già all'arrivare in aeroporto. Atterrare su una pista tra il mar dei Caraibi e una delle barriadas (favelas, ndr.) più aggressive della capitale da già l'idea di dove si è finiti. Nel tragitto dall'aeroporto al centro il senso di inquietudine aumenta. I quartieri poveri, le barriadas, sono luoghi che non hanno un corrispettivo in Ecuador o in altre città della Colombia che ho visto, hanno una gravità propria, una solidità diversa, danno un senso di oppressione più denso, più massiccio, fino a diventare fisico, una sensazione corporale. Quartieri più arroganti che a Medellín o a Guayaquil, che entrano fin dentro al centro, sovrastano da sopra le colline che circondano la città, scendono a cascata verso le zone interne, paiono saltare addosso. Ciò che contengono non è ben visibile ma non lasciano tutto all'immaginazione. Casette di laterizio a vista e scheletri di cemento (più tardi, entrandoci, avrò modo di verificare in prima persona come alcune siano fatte di cartone e spazzatura), tetti di lamiere che si aggrappano l'uno all'altro scalando le colline su cui si adagiano, panni stesi, figure umane che si muovono ma di cui non si percepiscono i gesti. Il resto del centro non allevia l'animo. Di fatto è una grande prigione, un arresto domiciliare volontario, autoindotto. I palazzi hanno grate alle finestre come fossero carceri di venti piani, i negozi hanno le sbarre, le porte sono difese, le guardie private davanti alle attività commerciali. Emana un senso di claustrofobia che ho subìto fin dall'inizio e che solo ora inizia a scemare nonostante finora le mie attività siano state all'insegna del “chiuso”. Auto, ufficio, porte chiuse a chiave, cancelli per entrare in ufficio, guardiani che ti aprono le grate, autista che ti porta fin davanti casa e autista che ti preleva giusto davanti casa. Un imponente e onnipotente sistema di chiuse che compartimenta la vita distratta di gente che non ci fa più caso. Chiavi, serrature, grate. Il concetto di casa ripercorre questo regime di chiavistelli. Innanzitutto, a riconferma, le grate alle finestre, i vicini sono principi di castelli difesi da muraglie, le zone ricche hanno ville invisibili protette da mura di cinta coronate da cavi ad alta tensione ed il portero a guardia del passo. Casa mia un po' meno, ma si difende bene. Un gigantesco circuito di paranoia autoalimentantesi condivisa da milioni di persone. E io, nato tra i colli Berici, vivo ora tra tralicci e fili spinati. Doveva esserci un equivoco. Ma non c’era. La padrona di casa è un'anziana italiana, magrissima e con un certo cipiglio nei modi, migrata negli anni 40 da una Roma che non esiste più verso una Caracas che non esiste più per fare fortuna con un marito artista e figli non caduti lontano dall'albero paterno. Vivo in una minuscola casetta di un solo piano con giardinetto per le boccate d'aria di cui necessito. Mi ha alloggiato in una dependance piena dei suoi libri di una vita in varie lingue europee, con una rumorosissima aria condizionata che mi inibisce per timore di svegliare i vicini, una doccia a singhiozzo e una graziosa finestra sul giardino. Si vedono i colibrì agitare le ali come vesponi su sottili fiori che non identifico. Alberi di mango pieni di scoiattoli che si librano sui rami facendo cadere frutta rosicchiata da quindici metri sopra la mia testa, sfiorandomi. La notte si sentono strani rumori che paiono allarmi di case, c’è chi insiste siano uccelli. Mi chiedo che uccello possa emettere tali versi. E poi certe sere a sentire le urla di quegli eccentrici cugini arruffati dei pappagalli che paiono grida umane. Strane lucertole, fiori d’altri mondi, gli attacchi delle zanzare. Presto mi diranno con noncuranza che con la stagione delle piogge, ormai in arrivo, si snidano sinuosi insetti dalle lunghe antenne, il cui corpo è adornato da strabilianti arabeschi color nero e oro e la cui puntura provoca una morte on immediata ma ineluttabile. L’incanto di fronte a una natura spregiudicata inizia a far spazio ad un guardingo senso di vulnerabilità. Ci si abitua a tutto ma all’inizio il pensiero dell’esistenza stessa di certi animali e il sentirsi circondato da quei rumori ancestrali sono una sfida per chi cerca di addormentarsi. Un’inquietudine via via narcotizzata dal sonnolento torpore che porta la mia mente in un viaggio di fantasia tra le onde del dormiveglia, a condividere quel millesimo di sensazioni inattese ed esotiche che con un pizzico di presunzione mi accomunano ai grandi esploratori del passato. Io sul mio letto, come Alexander von Humboldt, geografo lungo le rive dell’Orinoco, percepisco quel pizzico di sensazione infantile di scoperta mista ad un timore reverenziale per una natura che sovrasta, che delinea le mie debolezze e aspirazioni tra i suoni gutturali degli animali, ma soprattutto quegli impercettibili slittamenti della realtà, quando nei brevi secondi prima del sonno il mondo fa capolino nell’irreale. Quando gli alberi, gli uccelli, gli insetti, l’incessante fragore della battaglia della natura si accalcano indolenti nell’onirico mutando forma e aspetto. E ancora vi si può scorgere la mimetizzazione di qualcosa di estraneo. Come in quelle assordanti notti in Amazzonia, anni prima, dormendo tra le urla di animali di cui non conoscevo l’esistenza e nel silenzio di un cosmo di rara forza ed imperscrutabile capacità di sopraffazione. In mezzo al nulla e inghiottito dal tutto. Poi ci si sveglia. Sono di nuovo a Caracas. La mia delegazione è invitata al ricevimento della Rappresentanza della Commissione Europea in Venezuela al golf club di Vattelapesca. Nel salone la diplomazia europea è in fila a stringere mani con l'aria allegra ed il sorriso rassicurante di gente che ha perfettamente chiaro chi tu sia. Giri di presentazioni e chiacchiericcio da ricevimento. Finché non arriva il primo segretario dell'ambasciata statunitense, un omone gigante con grave accento gringo, che con fare disinvolto e sornione si tuffa nello stagno d’acqua diafana della nostra conversazione presentandosi come membro dell'Ambasciata dell'Impero, con chiara allusione a Chávez e ai suoi lamenti populisti. Dirlo in modo così sfacciatamente piccante a sconosciuti come noi la dice lunga sul clima liberale dell'ambiente. In effetti qui la propaganda populista si legge e respira ovunque, nelle pubblicità pre-film al cinema, sulle scritte lungo le strade, pennellate di colori allegri con vignette da cartone animato inneggianti al cittadino responsabile, all’Eldorado di una Caracas pulita, libera dal giogo americano, una città da carosello grata ad un ammirato ma stanco Simón Bolívar. Il ricevimento funziona per sorrisi, strette di mano, chiacchiere e biglietti da visita, tartine e vini, golf club e savoire faire. Più tardi mi sarei chiesto se io sapessi fare ma era uno dei miei primi giorni e qualche piccola incongruenza mi sarebbe stata scusata. Poi il discorso dell'ospite introdotto dalla nona sinfonia di Beethoven, inno dell'Unione, che sembra gridare sopra a Caracas un profondo senso di orgoglio. Da buon europeista mi lascio prendere e mi sento in parte a casa, più a mio agio. Agio che si dissolverà poco dopo, con una fuga da VIP a metà ricevimento per tornare tra le sbarre della realtà fuori dai confini dell'Unione Europea. Ma la boccata d'aria mi ha rinfrancato. Ottimo pure il salmone crudo che servivano.