Relativizzare Caracas

Caracas non è uno di quei posti per soddisfare le velleità di turisti curiosi. Sebbene il Venezuela sia denso di attrazioni naturalistiche, la capitale non è un luogo invitante, non rasserena, e sebbene le strade pullulino di un variopinto e vivace dinamismo, le cronache sulla diffusissima e spregiudicata criminalità di strada fanno spazio ad un guardingo senso di vulnerabilità. Con una media di cinquanta morti violente ogni fine settimana, la roulette dell’imprevedibile si è insinuata sottopelle agli ormai non curanti caraqueños. E’ una faccenda di posto sbagliato al momento sbagliato perché ti sparino mentre sei nel traffico per rubarti la macchina, o mentre cammini per rubarti la borsa. Qui per rubare si spara. A Caracas si possono rubare anche le case. Invadendole. E la vie legali di risoluzione evidenziano l’inefficacia dei mezzi e la mancanza di volontà politica di un governo impegnato a radicalizzare lo scontro di classe. E non è con poco stupore che ho accolto la risposta della mia collega Vanessa che, pur conscia della condizione di ostaggi dei cittadini di una città a tratti invivibile, alla domanda cosa non ti piace e cambieresti di Caracas un po’ pensosa mi risponde “il traffico”! Altra soffocante maledizione di qui, vero. Ma come mi sentivo fuori luogo nell’attendermi una risposta diversa. E proprio il traffico di Caracas ha radici politiche profonde e oggi giorno molto interessanti. E’ stata del resto la “fortuna” del Presidente Hugo Chávez quella di essere stato in carica durante l’ultima impennata del prezzo del petrolio. Il boom economico derivatone ha permesso di riversare le grandi somme dei proventi del greggio in programmi sociali per le classi povere, permettendo un consistente calo del numero di cittadini in condizioni di indigenza negli ultimi anni. Con relativa maggiore ricchezza e con un serbatoio pieno di benzina che non costa più di due euro (2 euro un pieno di benzina!), migliaia di nuove auto si sono riversate su una Caracas oggi costantemente collassata nel traffico. Il boom è stato spinto da un’ingente crescita della spesa pubblica negli ultimi anni ed amplificato dalla politica monetaria che, tra i vari grattacapi, tenta oggi di contenere un’inflazione del 20%. Inoltre dal 2005 il bolívar è valutato ad un tasso di cambio fisso con il dollaro ad un prezzo sovrastimato. Il risultato è una moneta sovraprezzo che favorisce l’import ma penalizza manifattura e agricoltura interne. Ed il controllo sui prezzi che il governo esercita su molti prodotti base per limitare l’inflazione disincentiva la produzione privata, provocando sensibili riduzioni di derrate alimentari che di risposta incoraggiano ulteriormente la pressione inflazionistica. Al supermercato spesso non si trova il latte e negli scorsi mesi mancavano lo zucchero, il mais, la farina. La produzione interna rallenta: non si investono più capitali in un clima di controllo dei cambi e dei prezzi, distorsioni economiche, disequilibri tra domanda e offerta, con minacciosi venti di nazionalizzazione dei settori strategici e, non da ultimo, d’innanzi all’evidente ostilità ideologica di Chávez verso il settore privato che sta minacciando l’imprenditoria e gli investimenti stranieri. Nonostante l’imponente carosello di giganteschi murales con cui il governo fa propaganda lungo le strade della città, la riduzione delle derrate e l’inflazione a due cifre stanno accrescendo il malcontento tra le classi più indigenti che oscillano tra il populismo di un Chávez protettore del popolo e la disillusione di fronte all’inefficacia del suo “Socialismo del XXI secolo”. Il proposito chavista ha visto il primo stop con il fallito referendum costituzionale del dicembre 2007 che voleva assicurare la rivoluzione del popolo su basi socialiste, anti-imperialiste e quasi totalitarie, concentrando tutto il potere su un esecutivo già centralizzato, sfilacciando il pluralismo e permettendo a Chávez infiniti mandati presidenziali. Ultimo affondo da stato di polizia, poi ritirato, è la legge di “intelligenza e contro-intelligenza” che avrebbe obbligato tutti i cittadini allo spionaggio ideologico pena la reclusione, minato il sistema giudiziario e sradicato qualsiasi garanzia nei processi. Ma l’affaticamento delle fazioni chaviste tra il popolo rivela disillusione e apatia di fronte ad un’espansione economica inefficace che, a dispetto di interi pomeriggi di logorrea socialista a reti unificate da parte di Chávez e nonostante il petrolio superi i 100 dollari al barile, non permette al venezuelano medio di comprare il latte. Quarant’anni fa invece il Venezuela era il Paese più ricco dell’America Latina. Molti infatti sono gli italiani, gli spagnoli, i portoghesi che, migrati dopo la guerra e fino a pochi decenni fa, hanno messo radici in un Paese all’epoca in forte crescita e con grandi prospettive. Il Signor Gandin viene dal Fiuli. E’ arrivato ormai sessant’anni fa da un Nordest che non esiste più in un Venezuela che non esiste più. Oggi è presidente del Fogolar Furlan, circolo di emigrati nostalgici che pranzano la domenica nella sede dell’associazione. Mangiano pasta italiana, bevono vino friulano e grappa degli Alpini. Il clima è festoso, è gente che si conosce da sempre e che da sempre vive a Caracas; le loro storie da ascoltare sono pezzi di romanzi d’avventura misti a diari di memorie di luoghi rimasti impressi nelle loro menti. La Signora Bevilacqua ricorda molto bene il suo Cadore, ricorda il nome dei monti e i luoghi delle sue vicende di ragazza. Nella mia testa invece, quei nomi normalmente così familiari nel loro essere lì, dietro l’angolo, ora da Caracas suonano come incongrui ma confortevoli richiami ad un senso di agio e di appartenenza. La Signora Daini, risoluta e nervina, non dà invece segni di cedimento nel raccontare come sia sopravvissuta alla guerra e come la vita le abbia insegnato la relatività delle cose. E’ una donna impaziente che, pur non uscendo quasi mai di casa, ha le giornate piene di faccende come sono state tutte le giornate della sua vita. Intenerisce fare certi incontri, confrontarsi con gente simile a me per provenienza culturale ma distante mondi nella modalità in cui questa è stata assimilata nel contesto in cui hanno vissuto. Nessuno ora tornerebbe più indietro. Nonostante la situazione disastrata del Paese, l’insicurezza che ne deriva e a dispetto del loro passaporto europeo, la Signora Bevilacqua mi gela con una considerazione semplice quanto definitiva: “non avrei più nulla da dire alla gente di là.” Dall’altra parte del mondo, lontano dalla borghesia italiana di Caracas, nei barrios di San Blas, di La Moran e di Barrio Aeropuerto, vivono le comunità su cui si focalizza il mio lavoro, un progetto umanitario della Commissione Europea e di Croce Rossa Italiana. Sono quelle zone che noi in Italia chiameremmo favelas e in cui nessuno si immaginerebbe di entrare. Io ho avuto questa fortuna, che ha sciolto velocemente l’iniziale senso di timore mutandolo in una frizzante voglia di conoscere. Anibal è visibilmente brillo sotto il sole delle prime ore del pomeriggio del sabato. Sputacchia incitandomi a sostenere la rivoluzione chavista che nasce dai giovani, la speranza per il futuro. Janeth esce dalla sua casa di mattoni e lamiere spostando una tenda decorata a fiori. E’ contenta. “Que Dios te bendiga” dice sempre. Qui la gente gioisce ancora per cose di cui noi non ci accorgiamo nemmeno più. Sembra impossibile che ci si possa aggrappare a così poco. Caracas è una città difficile. Ma a modo suo dà l’opportunità di relativizzare, di umanizzare, di appurare come gente muoia e rinasca ogni giorno in una delle città più pericolose del mondo. Come dice la Signora Daini, “l’uomo è le circostanze”.

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